LABOR

Il tuo lavoro è anche il mio

Il fenomeno delle Grandi Dimissioni.

Sta arrivando anche in Italia?

Chi legge da un po’ di tempo questo blog sulla Consulenza del Lavoro, sa bene che in questo spazio si alternano contenuti riguardanti informazioni di natura più tecnica e contenuti più generali sul tema delle risorse umane e del lavoro. Con il 2022 ormai avviato a pieno ritmo, siamo ufficialmente dentro il terzo anno di pandemia e in me non potevano che nascere tante nuove riflessioni su come il mondo del lavoro stia cambiando e su come una sorta di fatica diffusa stia sempre più spesso invadendo l’emotività delle persone che lavorano.

Ha senso chiamarlo ancora smart working?

Ho accennato questo argomento già in un altro articolo del mio blog e anche in quella circostanza ho sottolineato come in Italia, appena entra nel gergo una nuova espressione inglese, la tendenza sia subito quella di appropriarsene, finendo per utilizzarla spesso in modo completamente sbagliato. In questo caso specifico ancora di più, visto che il remote working (così dovrebbe chiamarsi!), per come lo abbiamo recepito e messo in atto, non ha proprio nulla di smart

Se è vero che da una parte lavorare da casa ha creato buone opportunità di conciliazione tra vita personale e vita professionale, dall’altra ha messo in difficoltà tante persone, non solo per una questione di spazio fisico, privacy e attrezzatura utile all’attività professionale, ma anche per la potenziale tossicità di una sovrapposizione inevitabile tra problemi di lavoro e problemi familiari.

Le Grandi dimissioni.

La scorsa estate, negli Stati Uniti, si è verificato un fenomeno che alcuni hanno battezzato con il nome di “Great Resignation”, le Grandi Dimissioni. Un fenomeno rappresentato da un’ondata di persone che hanno improvvisamente lasciato il proprio lavoro. Stiamo parlando di ben 4 milioni di lavoratori statunitensi. Secondo il pensiero di alcuni importanti consulenti aziendali per le risorse umane, le cause vanno individuate in due elementi principali:

1. chi ha lasciato il lavoro in seguito all’esplosione della pandemia, stava già valutando di farlo prima del Covid e la circostanza di instabilità diffusa gli ha dato una spinta decisiva;

2. il carico di lavoro disorganizzato, pressante e accumulato anche tra le mura di casa, unito all’incertezza del futuro e alla mancanza di una socialità, ha portato tante persone a rivedere le proprie priorità e, in particolare, il ruolo del lavoro nella propria vita.

Secondo alcune ricerche realizzate soprattutto nei contesti lavorativi anglosassoni, sembra che le aziende, e più in generale i datori di lavoro, abbiano sottostimato l’impatto della pandemia sull’equilibrio psicologico dei propri dipendenti. Effettivamente tutti, e a tutti i livelli, siamo stati travolti da una situazione inattesa e di difficilissima gestione, che spesso ci ha fatto reagire in modo abbastanza inadeguato. Questo, di contro, ha messo in luce alcuni limiti del sistema lavoro e ha fatto emergere tanti nuovi elementi che da sempre sono “gridati” dai più preparati responsabili delle risorse umane. La salute mentale delle persone che lavorano dovrebbe essere una priorità che porta vantaggi a tutti; questo anche e soprattutto prima del Covid.

E in Italia?

Come la maggior parte delle tendenze socio-economiche, il fenomeno della Great Resignation è arrivato in Europa, e in particolare in Italia, diverso tempo dopo le prime avvisaglie americane. Più precisamente, in Italia le ricerche in questa direzione sono ancora in atto, ma già si è evidenziato come negli ultimi due anni ci sia stata, anche qui, una crescita delle dimissioni volontarie. I numeri sono ovviamente molto lontani da quelli rilevati negli Stati Uniti. Fortunatamente (ma solo per ora), le percentuali italiane sono inferiori anche alle medie europee.

Tra i dati a mio parere più interessanti, c’è la fascia d’età maggiormente colpita da questa rassegnazione: i giovani tra i 20 e i 30 anni. Quella generazione forse più abituata a passare da un posto di lavoro all’altro e che ha cominciato a lavorare considerando la flessibilità una caratteristica normale del proprio lavoro. Quella generazione che non considera più (anche perché in realtà non è più così) il posto fisso come qualcosa di sicuro e inscalfibile

Ci sono soluzioni?

Non ho una risposta precisa e definita e non è nemmeno mio compito dare soluzioni in questo senso. Ho però individuato due parole, due concetti chiave che credo dovranno caratterizzare il presente e il futuro del mondo del lavoro: flessibilità e sostenibilità.

Flessibilità. Si tratta di un concetto che dovrebbe essere accolto sia dalle imprese che dalle persone che lavorano; è inevitabile di questi tempi. Le imprese devono accettare che le persone non considereranno più lo stipendio come esclusiva priorità, ma si sentiranno sempre più attratte da chi proporrà un giusto equilibrio tra benessere personale e compenso.

Le persone che lavorano, allo stesso tempo, dovranno acquisire e sviluppare sempre di più la capacità di cambiare, di reinventarsi e adattarsi ai tanti mutamenti che il loro lavoro potrà subire negli anni.

Sostenibilità. Crescere e innovare non significa solo digitalizzarsi il più possibile. Significa anche prestare sempre più attenzione all’ambiente, al proprio e a quello che ci circonda. Attenzione, non ambiente inteso come natura, ma come ambiente di lavoro, ambiente umano, ambiente personale, ambiente collettivo. Investire nella formazione, provare a trasformare la costrizione produttiva in libertà espressiva della propria professionalità, ascoltare e condividere i bisogni dell’impresa e di chi ci lavora e cercare di trovare dei punti d’incontro. Sono tutti elementi con cui dobbiamo fare i conti adesso, prima che sia troppo tardi.

Al prossimo articolo.

Stefania

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