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Il tuo lavoro è anche il mio

Quiet quitting

Una soluzione o un problema?

Care lettrici e cari lettori, bentrovati su Labor, il Blog sulla consulenza del lavoro. Quale miglior modo per tornare a scrivervi qui, se non quello di affrontare uno dei temi più discussi degli ultimi mesi? Sto parlando del quiet quitting. In questo articolo vedremo insieme di cosa si tratta, da cosa nasce, proveremo ad analizzarlo e comprenderlo, non solo dal punto di vista del lavoratore, come molti articoli hanno già fatto nelle ultime settimane, ma anche dal punto di vista dell’impresa.

Partiamo dal suo significato: cos’è il quiet quitting?

Il termine quiet quitting significa letteralmente licenziarsi in silenzio. Il fenomeno nasce negli Stati Uniti da una delle piattaforme social più utilizzate tra i giovani: Tik Tok, che tramite l’hashtag #quietquitting ha raggiunto in poco tempo più di 8,2 milioni di visualizzazioni. Con questi numeri è presto detto che la sua diffusione è in un attimo andata oltre i confini americani, raggiungendo tutto il mondo. In poche parole, i sostenitori di questo trend (associato in particolare alle fasce più giovani dei lavoratori) applicano un nuovo approccio al lavoro: fare il minimo indispensabile, senza mai prevedere uno sforzo in più. Niente coinvolgimento, niente passione, nessuno straordinario o attività extra. Questo permette al lavoratore di non perdere il posto (dopo tutto lavorare il necessario dovrebbe essere sufficiente, no?), in modo da poter dedicare più tempo ed energie ad altri ambiti della propria vita privata.

Ma perché sembra che i giovani vogliano fare solo il minimo indispensabile?

Diversi studiosi delle scienze umane hanno fin da subito cercato di analizzare le cause di questo fenomeno. Molti hanno associato la nascita del quiet quitting a un calo di soddisfazione e gratificazione lavorative che accomuna molti lavoratori dei nostri tempi. Altri, invece, hanno associato la nascita del quiet quitting alla fase post-pandemica che, citando una ricerca dell’Università di Nottingham, “ha completamente cambiato il rapporto delle persone con il lavoro”, come dopo tutto avevamo già visto in passato anche in altri articoli qui su Labor (vedi La settimana lavorativa di quattro giorni). Dal Covid in avanti, la maggior parte delle persone ha iniziato a bilanciare in maniera più equa lavoro e vita privata.

La situazione italiana e quella europea.

Come già detto, questo fenomeno ha coinvolto non solo gli USA ma anche l’Europa e l’Italia. Immagino vi starete chiedendo se anche nella nostra penisola sia così diffuso. Secondo i dati di un rapporto annuale di Gallup, società che si occupa di analisi e consulenza sull’esperienza e le valutazioni dei lavoratori e delle lavoratrici sulla vita professionale, in Europa soltanto il 14% degli intervistati si dichiara soddisfatto o entusiasta del proprio lavoro. In Italia, invece, la percentuale scende addirittura al 4%: la più bassa tra quelle di tutti i 38 Paesi europei presi in considerazione. Quindi sì, purtroppo questo problema riguarda anche noi italiani e magari molti di voi si sono già trovati o si trovano adesso in questa situazione, chi ad attuarla, chi a subirla.  

Più che un fenomeno, un problema.

Il quiet quitting è un problema, diciamocelo, sia per chi lo applica al lavoro, sia per chi lo subisce in azienda. Per chi lo applica, a mio modo di vedere, può portare nel lungo periodo alla frustrazione e aumentare l’insoddisfazione; per chi lo subisce, può certamente avere come conseguenza un calo della produttività e un ambiente di lavoro difficile. Credo che il modo migliore per affrontarlo non sia quello di considerare esclusivamente la condizione dei lavoratori, come invece mi è capitato di leggere ultimamente. Al contrario, penso sia necessario comprendere entrambe le parti coinvolte per riuscire a capire se quello che manca è davvero la capacità degli imprenditori di gestire un progetto d’impresa in maniera sostenibile (anche a livello umano) o se manca la volontà di impegnarsi da parte di chi lavora. E non vorrei nemmeno ridurre la mia riflessione solo a questi due estremi.

A ognuno le sue responsabilità.

Sulla base della mia esperienza come Consulente del Lavoro, sono convinta che il cuore della questione sia riconducibile a un solo concetto, anzi un solo valore: la responsabilità. Sì, è tutta questione di responsabilità.  Viviamo in un mondo complesso, globalizzato, siamo dentro un mercato difficile da governare e spesso anche da interpretare. Lavoratori e datori di lavoro dovrebbero tutti prendersi il proprio pezzo di responsabilità, in ottica collaborativa e con spirito di squadra, affinché tutti possano vincere, senza che nessuno dei due soccomba. Com’è vero che ci sono imprese incapaci di gestire e valorizzare le persone, ci sono certamente anche persone che quel passo in più potrebbero farlo ma non lo fanno. Bisogna domandarsi il perché e forse anche al lavoro potrebbe essere utile aprirsi al confronto umano, oltre che a quello professionale. A parità di competenze tecniche, cos’è che può permettere a un lavoratore di distinguersi, se non la motivazione, l’entusiasmo, la dedizione?

Se è vero che la così detta hustle culture, ossia il mito americano secondo cui era doveroso dedicare tutta la propria vita al lavoro, è finita con la generazione dei nostri padri, dobbiamo tutti provare a rimodulare il nostro stesso concetto di lavoro. E allora più che di capi, forse ci sarebbe bisogno di mentori e più che di lavoratori ci sarebbe bisogno di persone appassionate.

Questa è la mia riflessione sul quiet quitting. Se vi va, ditemi la vostra.

Al prossimo articolo

Stefania

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