LABOR

Il tuo lavoro è anche il mio

Settimana lavorativa di 4 giorni.

In Europa se ne parla da un po’. E in Italia?

In questo articolo di Labor, il blog sulla Consulenza del Lavoro, vorrei affrontare uno dei temi più discussi, ma anche più particolari, di questo periodo: la settimana lavorativa di 4 giorni. Un argomento molto chiacchierato in giro per il mondo già da qualche tempo, adesso arrivato anche in Europa.

Per entrare bene nel tema, voglio partire dall’esperimento avviato da diverse aziende del Regno Unito proprio su questa (innovativa?) formula lavorativa. L’esperimento è nato su iniziativa della ONG 4 day week global, in collaborazione con le Università di Cambridge, Oxford e il Boston College. Un test di sei mesi che ha visto coinvolti (su base volontaria) migliaia di dipendenti di aziende private, al fine di dimostrare la possibilità di rimodulare l’orario di lavoro su 4 giorni alla settimana, senza però ridurre lo stipendio e senza subire un calo di produttività. 

Le motivazioni dietro all’esperimento: lavorare meno, lavorare meglio.

Come abbiamo già visto nell’articolo sulla mancanza di personale nel settore turistico (che trovate qui), negli ultimi anni sembra che non sia più sufficiente per le aziende offrire un salario competitivo per attirare talenti. Quello che oggi le persone cercano dai propri datori di lavoro (o forse lo hanno sempre cercato?) è il giusto equilibrio tra ore lavorate e vita privata. Dalla pandemia di Covid-19 in poi, stiamo assistendo a un vero cambiamento della cultura del lavoro, perché in primis sono le esigenze dei lavoratori a essere cambiate. Basti pensare che in Italia sempre più persone chiedono di poter lavorare in remote working, una modalità di lavoro che consente di dedicare più tempo a sé stessi, alla famiglia o alle proprie passioni e che, al contempo, offre un’opportunità in più anche alle aziende: risparmiare sui costi fissi.

In questo scenario, la riduzione dei giorni di lavoro offrirebbe ai dipendenti un enorme vantaggio in termini di benessere personale e di work life balance e alle aziende invece garantirebbe, oltre a un potenziale aumento dei livelli produttivi (almeno così pare), la possibilità di attrarre nuovi talenti addirittura del 63% in più. L’obiettivo della ricerca è stato proprio questo: dimostrare come, quanto e se aziende e dipendenti guadagnerebbero dalla riduzione dei giorni di lavoro. 

Il Regno Unito: il fanalino di coda di una serie di casi di successo. 

Quello del Regno Unito è sicuramente il primo esperimento condotto su una così larga scala di persone, ma è anche l’ultimo di una lunga serie di sperimentazioni di successo avvenute in altri Stati. Il primo caso è stato quello dell’Islanda, che ha condotto due prove. La prima tra il 2014 e il 2019 e la seconda tra il 2017 e il 2021. Alla fine di entrambe le sperimentazioni è emerso non solo che il benessere dei lavoratori è migliorato, ma soprattutto non sono state rilevate significative perdite di produttività o qualità dei servizi forniti. Esperimenti simili sono stati condotti anche in Belgio, in Scozia, Spagna, Giappone, Emirati Arabi e Nuova Zelanda. Anche in tutti questi paesi i risultati sono stati sorprendentemente positivi: dipendenti più contenti e nessun calo produttivo. 

Benefici per i dipendenti, ma anche per le aziende?

A fronte di questo scenario così roseo, le aziende non dovrebbero far altro che implementare questo sistema già da domani mattina. Sappiamo bene, però, che una cosa sono le sperimentazioni, un’altra è la realtà produttiva delle aziende, soprattutto nel lungo periodo e anche nella gestione delle fisiologiche oscillazioni dei mercati. Inoltre, ritengo che ogni paese, soprattutto in Europa (e nonostante la globalizzazione) abbia una cultura del lavoro diversa. Per questo non è così scontato che un modello possa funzionare allo stesso modo dappertutto.

Volendo però vedere il bicchiere mezzo pieno, le aziende, oltre ad avere dipendenti più felici e meno stressati, pare migliorerebbero proprio i livelli produttivi. Affermazione che appare quasi come un contraddizione per la nostra cultura del lavoro. Ma da quello che dicono i dati, in paesi come Belgio, Scozia e Spagna, è stato registrato un aumento della produttività dal 10% al 40%. Inoltre, ci sarebbe un terzo attore a trarre beneficio da questo sistema: l’ambiente. Meno giorni di lavoro, dopo tutto, significa meno tragitti e quindi meno emissioni di gas serra

Tradizione vs innovazione: in Italia cosa succederebbe?

Finora, tutti gli esperimenti condotti hanno dimostrato effetti positivi. In più, molti altri studi ci raccontano come il lavoro di 40 ore su base settimanale non sia poi così sostenibile, dal momento che è molto difficile mantenere invariato per 8 ore consecutive (nonostante le pause) il livello di concentrazione nei lavoratori. Se la vecchia cultura con cui tutti noi siamo cresciuti, secondo la quale più ore lavori, più produci, fosse vera, allora i paesi in cui si lavora di più dovrebbero essere anche i paesi economicamente più produttivi. La Grecia, ad esempio, è uno dei paesi in cui si lavora più ore alla settimana e nonostante ciò non la annovererei tra gli esempi di economia più produttiva al mondo. Subito dopo Grecia ed Estonia, troviamo (udite, udite!) l’Italia tra gli Stati in cui si lavora più ore a settimana. E proprio in Italia, sarebbe mai possibile la settimana lavorativa di 4 ore?

Secondo un’indagine SWG per Italian Tech, riportata da Open, il 56% degli italiani vorrebbe la settimana lavorativa breve (e chi non la vorrebbe, aggiungerei). Dal mio punto di vista, nel nostro paese si potrebbe iniziare a ragionare su quei settori in cui il lavoro è misurabile per obiettivi specifici e tangibili, in modo da poter verificare, dati alla mano, se alla fine di un ipotetico esperimento analogo a quello del Regno Unito, quegli obiettivi sarebbero ugualmente raggiunti. Come accennavo prima, a volte i dati non sono abbastanza e vanno inseriti all’interno di un contesto. In Italia, per esempio, un contratto full-time nel settore pubblico corrisponde a 36 ore settimanali, mentre nel privato a 40. Senza alcun giudizio di valore, mi chiedo: i dipendenti pubblici sono quindi più produttivi di quelli privati?

Il valore umano resta la cosa più importante.

Lasciando da parte per un attimo i dati e parlando di valore umano, penso che alla base della buona riuscita di un esperimento del genere, debba esserci una cultura del lavoro che non possa prescindere dal senso di responsabilità del singolo individuo, sia esso imprenditore o dipendente. Lavorare meglio, in fondo, è l’obiettivo finale di tutti, aziende e lavoratori; che lo si raggiunga con la riduzione delle ore di lavoro, con il remote working, con gli aumenti di stipendio, con la creazione di un ambiente sereno, con i premi o i benefit, non importa. Ciò che conta è la gestione efficiente di tutto il sistema lavoro, che dovrebbe concentrarsi sempre di più sull’equilibrio tra produttività e felicità.

Grazie ancora per aver dedicato il vostro tempo alla lettura di Labor.

Al prossimo articolo

Stefania

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